Like any good writer, I’ve gone over my childhood in my mind so many times, searching for what went wrong, why Dad hadn’t fought harder to keep us all together instead of letting Mom bundle us off to Seattle. It was like he’d wanted us to go, couldn’t wait to be rid of us. Had he been depressed? Was it the alcohol? Was it me? After a while, I forced myself not to care. It was better not to dwell on everything we’d left behind.
—From “My Father’s Son” by Alex Buchanan
There are people in your life who stick with you forever.
You might forget them for a while or push them to the back of your mind, but they are written on your skin like a tattoo, etched in your bones, in your blood, your very breath. They hold on and never let go. So much a part of you that you don’t even know they’re there.
Indelible.
Benji Morning was that person for me. It was why, twenty years after I’d last seen him, I was driving east along Highway 16, awash in recollections of that long, hot, bucolic summer of 1996 that had ended in such turmoil, instead of heading for the hospital. It was the summer I first felt those then-uncomfortable feelings that would define the rest of my life, the summer Benji’s sister ran away, the summer my once-happy family finally fell apart for good.
Twenty years apart is a long time. I don’t mean to give the impression that those years have been shit, or that I’ve been pining for the awkward, redheaded boy I once knew. There’s nothing shorter than a thirteen-year-old boy’s attention span, and by the beginning of ninety-seven, I was settled in a new school in Seattle, with a new group of friends to entertain me, girls to chase, and memories of our life in the wilds of British Columbia, of Benji in particular, fading faster than a pair of newly purchased blue jeans in the washer.
Life goes on, whether we want it to or not.
Come ogni scrittore che si rispetti, ho ripensato tantissime volte alla mia infanzia per capire cosa fosse andato storto e perché mio padre non avesse combattuto di più per tenere insieme la nostra famiglia invece di permettere a mia madre di portarci a Seattle. È stato come se volesse mandarci via e non vedesse l’ora di liberarsi di noi. Soffriva di depressione? È stata colpa dell’alcol? O forse la colpa è stata mia? Dopo un po’ di tempo, mi sono obbligato a non pensarci. Era meglio non soffermarmi su tutto quello che avevamo lasciato alle spalle.
– Figlio di mio padre, Alex Buchanan.
Nella vita si incontrano persone che restano con te per sempre.
Puoi anche dimenticarle per un po’ di tempo o cercare di spingerle fuori dalla tua mente, ma sono scritte sulla tua pelle come un tatuaggio, incise nelle tue ossa, nel tuo sangue, nel tuo stesso respiro. Ti si attaccano addosso e non ti lasciano più andare. E sono una parte di te talmente profonda da non rendersi neanche più conto della loro presenza.
Indelebili.
Benji Morning era per me una di quelle persone. Era quello il motivo per cui, vent’anni dopo averlo visto per l’ultima volta, anziché dirigermi all’ospedale mi ero ritrovato a guidare verso est lungo l’autostrada 16, pervaso dai ricordi di quella lunga, bucolica estate del 1996 finita in un disastro. Durante quell’estate avevo provato per la prima volta quei sentimenti, all’epoca difficili da gestire, che avrebbero determinato il resto della mia esistenza. Era stata l’estate in cui la sorella di Benji era scappata di casa, l’estate in cui la mia famiglia, un tempo felice, era crollata in mille pezzi.
Venti anni di separazione sono tanti. Non voglio dare l’impressione che siano stati anni orribili e che io li abbia passati a pensare a quel bizzarro ragazzino dai capelli rossi che avevo conosciuto un tempo. Non esiste nulla di più breve del livello di attenzione di un tredicenne e, agli inizi del 1997, mi ero già ambientato in una scuola a Seattle, con un nuovo gruppo di amici con cui passare il tempo, delle ragazze a cui correre dietro e i tanti ricordi della nostra vita nella Columbia Britannica, e specialmente di Benji, sbiaditi come un paio di jeans nuovi appena usciti dalla lavatrice.
La vita continua, che lo vogliamo o no.