September 1943, Townsville.
Goddamn humidity.
Was it possible it was worse here than on the island? Maybe. More likely it was a couple of degrees cooler here, except some idiot had built the place with closed-in buildings that were like furnaces during the day.
Sweat slid down Tanner’s back, plastering his shirt to his skin. He itched. Overhead, a ceiling fan slowly shifted the pockets of heat around.
Ahead of him in the line, a man droned on and on, and the woman seated at the desk ran a finger around the collar of her khaki uniform shirt. A paper fan lay open on her desk, the sort that you could pick up cheaply at any Chinese market. Tanner felt an unaccountable urge to dart forward and steal it. It would be worth it, for a breath of cooler air.
He transferred the envelope from his left hand to his right, leaving damp fingerprints.
Goddamn humidity.
Tanner looked up as a door in the lobby squealed open, and a pair of men stepped out. The tail end of their conversation followed them through the door.
“—after what happened at Namatanai.”
That voice.
It brought Tanner out in a sudden chill despite the heat.
Tanner was used to hearing it when he was hunkered over in a canvas tent on a tiny speck of green in the vast blue ocean. The radio usually squawked right on dusk, and Tanner always leaned closer to make sure he didn’t miss a single word.
“Hello, Americans.”
He hadn’t thought to hear it here in an office building in Townsville, not even at Area Combined Headquarters. Strange to think that all of the business of the war that was conducted here around maps and files and reports had any relation at all to the mud and the heat and the chaos of the Pacific islands.
“Hello, Americans. The sky was very blue today.”
Tanner stared at the men. One was small and rotund with a bristling moustache and a bald head. The other was lean and lanky and tanned by the sun. He was still talking when Tanner turned around, his voice lower now, calm, but still fucking unmistakable.
Blue Sky Guy.
Tanner had listened to his voice for weeks, waited for it every day while he watched the shadows from the palm trees stretch out along the beach. He liked the guy’s voice. It was different from the others. Less clipped. Younger. The accent was mostly Australian, but sometimes it slipped. Ayet, instead of eight. Ailan, instead of island. He had the Pacific in his veins. He was a voice, just a disembodied voice that floated across the ocean on the night air, and Tanner had always listened, the knot in his gut loosening whenever he heard him.
Whenever he knew he was okay. How many times had he worried when he hadn’t heard that voice for days? How many times had he clamped his cigarette between his lips and picked up his pencil in his shaking hands, the sudden relief as almost as crippling as the worry?
He missed that voice when he didn’t hear it for a while. Tossed and turned each night thinking about it. In the day he’d turned his gaze north, fixing it on the hazy ocean horizon. Willing the guy to be okay. The guy. Blue Sky Guy.
“Hello, Americans. The sky was very blue today.”
[…]
Maybe it was fate. Tanner had begun to believe in fate a little, or at least not to disbelieve in it. You met a man who knew someone from home, and it was fate that you shared a drink. That guy who had gone to college with your cousin? That guy whose family had gone to Rehoboth Beach for summer vacations just like yours had? Who remembered the taste of the ice cream on the pier? You made him your brother, even if it was just for a few hours. You did these things because you might not get another chance.
You did them because you grasped for any connection to home.
Blue Sky Guy was different. He wasn’t a connection to home. Blue Sky Guy was a voice that had reached out to Tanner across miles of lonely ocean, and now he was here.
Still fate.
Maybe even more profound, because hadn’t Tanner imagined this moment? Hadn’t they all.
“If I ever meet those guys,” Caruso had said a hundred times, “I’d like to shake their hands”
But it was Blue Sky Guy that Tanner had thought of the most. That slipping accent. That voice that sounded younger than the rest. The sense of humor that even a clipped radio transmission couldn’t entirely hide.
The guy had noticed him staring, and closed his mouth. He watched warily as Tanner approached.
He was as young as Tanner had thought. Only in his mid-twenties at the most. He was good looking—about five foot eight, with a pleasant face, and light brown sun-bleached hair. He had a short back and sides, and wore his hair longer on top: a civilian haircut instead of a military one. His eyes were the color of the Pacific at dawn.
“I’m sorry to interrupt,” Tanner said, sticking out his hand. “My name is Captain John Tanner. And you’re Blue Sky Guy.”
The guy hesitated before shaking his hand.
“I need to buy you a beer,” Tanner said. The guy smiled.
“Yeah, that would be good.”
Settembre 1943, Townsville.
Maledetta umidità.
Possibile che qui fosse persino peggio che sull’isola? Forse. Era più probabile che ci fossero un paio di gradi in meno, ma qualche idiota aveva costruito il posto con strutture troppo vicine una all’altra che durante il giorno si trasformavano in fornaci.
La schiena di Tanner era madida di sudore, la camicia appiccicata alla pelle. Sentiva prurito ovunque. Sopra la sua testa, un ventilatore a soffitto spostava pigramente in giro le sacche di calura.
In fila davanti a lui, c’era un uomo che non la smetteva mai di parlare e la donna seduta alla scrivania continuava a passarsi un dito lungo il colletto della camicia della sua uniforme kaki. Sulla scrivania giaceva aperto un ventaglio di carta, del genere che si poteva comprare per due soldi in qualsiasi mercato cinese. Tanner sentì un istinto quasi insopprimibile di lanciarsi in avanti e rubarlo. Ne sarebbe valsa la pena, per un soffio di aria fresca.
Spostò la busta di carta dalla mano sinistra alla destra, lasciandovi sopra delle impronte bagnate.
Maledetta umidità.
Tanner alzò gli occhi al rumore della porta dell’anticamera che si apriva con un cigolio e ne vide uscire due uomini. Il finale della loro conversazione li seguì attraverso la porta.
«… dopo quello che è successo a Namatanai.»
Quella voce.
Tanner sentì un brivido improvviso malgrado il caldo.
Sentiva sempre quella voce mentre stava rannicchiato in una tenda su un pezzettino di verde nel vasto oceano blu. La radio di solito cominciava a gracchiare al crepuscolo e Tanner si avvicinava sempre per assicurarsi di non perdere nemmeno una parola.
«Salve, americani.»
Non si era aspettato di sentirla qui, in un ufficio di Townsville, nemmeno al Comando delle Forze di Difesa. Era strano pensare che l’intera condotta della guerra che in questi uffici veniva valutata su mappe, documenti e rapporti, avesse qualche relazione con tutto il fango, il caldo e il caos delle isole del Pacifico.
«Salve, americani. Il cielo era davvero blu oggi.»
Tanner guardò i due uomini. Uno era piccolo e paffuto con dei baffi arruffati e la testa calva. L’altro era magro e dinoccolato e abbronzato dal sole. Stava ancora parlando nel momento in cui Tanner si era girato, aveva abbassato il volume e parlava con calma, ma la sua voce restava comunque inconfondibile.
Era proprio lui, Cielo Blu.
Tanner aveva ascoltato la sua voce per delle settimane, l’aveva aspettata ogni giorno mentre osservava le ombre delle palme allungarsi sulla spiaggia. Quella voce gli piaceva. Era diversa dalle altre. Meno tagliente. Più giovane. L’accento era perlopiù australiano, ma a volte cambiava un po’ nel modo di dire i numeri, per esempio, o nella pronuncia di certe parole. C’era qualcosa delle isole del Pacifico nelle sue vene. Non era che una voce, una voce senza corpo che fluttuava attraverso l’oceano nell’aria della notte e ogni volta che Tanner l’aveva ascoltata, la tensione che gli annodava lo stomaco sembrava sempre allentarsi un po’.
Ogni volta che aveva avuto conferma che quell’uomo stava bene.
Quante volte si era preoccupato dopo giorni in cui non aveva sentito quella voce? Quante volte aveva stretto la sigaretta fra le labbra e preso la matita fra dita tremanti, provando un sollievo improvviso, devastante quanto la sua preoccupazione?
Avvertiva la mancanza di quella voce quando non la sentiva per un po’. Si girava e agitava tutta la notte pensandoci. E durante il giorno dirigeva lo sguardo verso nord, fissandosi sull’incerto orizzonte dell’oceano. Desiderando che quell’uomo stesse bene. Lui. Cielo Blu.
«Salve, americani. Il cielo era davvero blu oggi.»
[…]
Forse era il destino. Tanner aveva cominciato a credere un po’ al destino o almeno a non rifiutarsi di crederci. Si incrociava un tizio che conosceva qualcuno nella vostra città e il destino vi faceva bere una cosa insieme. Quell’uomo che era andato all’università con vostro cugino? Quel tizio la cui famiglia andava sempre in vacanza sulla spiaggia di Rehoboth, proprio come la vostra? Che si ricordava del sapore del gelato che vendevano sul molo? Quell’uomo diventava vostro fratello, anche se soltanto per qualche ora. Si facevano quelle cose perché forse non si sarebbe mai presentata un’altra opportunità.
Si facevano perché ci si aggrappava a ogni tenue legame con la propria casa.
Cielo Blu era diverso. Non era un legame con la propria casa. Ma una voce che aveva raggiunto Tanner attraverso chilometri di oceano solitario e che adesso si trovava proprio lì.
Era comunque destino.
Magari lo era in un senso ancora più profondo poiché non era forse vero che Tanner aveva immaginato quel momento? Non lo avevano fatto tutti?
«Se mai dovessi incontrare uno di quei tizi,» aveva detto Caruso centinaia di volte, «mi piacerebbe stringergli la mano.»
Ma era Cielo Blu quello a cui Tanner aveva pensato più di ogni altro. Quell’accento mutevole. Quella voce che sembrava più giovane delle altre. Il senso dell’umorismo che nemmeno una gracchiante connessione radiofonica riusciva a nascondere del tutto.
L’uomo aveva notato il suo sguardo e aveva chiuso la bocca. Lo stava fissando con attenzione mentre Tanner si avvicinava.
Era tanto giovane quanto Tanner aveva immaginato. Forse sui venticinque anni, non di più. Era attraente, sul metro e settanta, con un viso gradevole e i capelli castani schiariti dal sole. Erano tagliati corti sulla nuca e le tempie, ma più lunghi sulla testa, un taglio da civile, piuttosto che da militare. I suoi occhi erano dello stesso colore del Pacifico all’alba.
«Mi dispiace interrompere,» disse Tanner allungando una mano, «sono il capitano John Tanner. E lei è Cielo Blu.»
Il giovane esitò prima di stringergli la mano.
«Vorrei davvero offrirle una birra,» disse Tanner.
L’uomo sorrise. «Sì, mi farebbe piacere.»