“What’s the hurry, Captain?”
Hook twisted around in his chair, startled. He hadn’t heard the stranger approach, yet there he was, sitting on a rock at the edge of the ravine. The young man wore shapeless clothes, the trousers well cuffed and the overlarge sleeves torn away at the elbows. He was unarmed—unusual, for a denizen of Neverland—yet there was a challenge in his cool stare.
“Hello,” Hook said, attempting to compose himself. The stranger was handsome, in a lanky sort of way—his face was bony and keen, his limbs long and narrow. His hair curled raggedly, as if it had been hacked off with a knife. “What have we here?”
The stranger leaned forward as if he might pounce. “You don’t remember me?”
There was something familiar about the young man’s coloring and his clear, arrogant voice. It tugged at an old memory, one that Hook could not quite place. “Why should I?”
“We fought, a long time ago,” the stranger said. He rose, swaying slightly. Hook watched as he picked his way down the ravine. He walked on his toes and carried himself as if he were half air, as though a mere breeze could lift him off his feet. Something about his movements raised the hair on the back of Hook’s neck. They were not just familiar, though they were hauntingly familiar. They were the footsteps of a cat slinking toward a wounded bird.
“Who are you?” Hook asked, curling his fingers around the hilt of his sword.
The stranger paused and gave a slow, cold smile. “I’m the prince of runaways,” he said. “The rightful king of Neverland.”
«Che fretta c’è, Capitano?»
Colto di sorpresa, Uncino si girò sulla sedia. Non aveva sentito lo sconosciuto avvicinarsi eppure, eccolo lì, seduto su una roccia all’ingresso della gola. Il giovane uomo indossava abiti informi, i pantaloni erano lisi e le maniche della camicia troppo larghe e strappate all’altezza dei gomiti. Non aveva con sé nessuna arma, una cosa molto insolita sull’Isola Che-non-c’è, ma i suoi occhi freddi avevano un’aria di sfida.
«Oh, salve,» disse Uncino, tentando di ricomporsi. Lo straniero era decisamente attraente, malgrado la sua aria dinoccolata: aveva un volto asciutto e spigoloso, braccia e gambe lunghe e magre. Aveva i capelli ricci e tagliati male, come se qualcuno si fosse accanito su di loro con un coltello. «E tu chi saresti?»
Lo straniero si inchinò verso di lui come se stesse per saltargli addosso. «Non ti ricordi di me?»
C’era qualcosa di familiare nell’aspetto del ragazzo e nella sua voce chiara e arrogante. Gli aveva fatto tornare in mente qualcosa, un vecchio ricordo difficile da piazzare. «Perché dovrei?»
«Abbiamo combattuto, tanto tempo fa,» rispose lo straniero. Si alzò dondolando leggermente e Uncino lo osservò mentre si faceva strada lungo la gola. Camminava come sospeso nell’aria, come se un semplice alito di vento avesse potuto farlo alzare in volo. Immediatamente, qualcosa nel suo modo di muoversi mise Uncino in allerta. Non erano soltanto movimenti familiari, erano i passi di un gatto che si avvicina silenziosamente a un uccellino ferito.
«Chi sei?» chiese Uncino mentre stringeva le dita intorno all’impugnatura della spada.
Lo straniero si fermò e gli sorrise freddamente e con calma. «Sono il principe dei fuggiaschi,» rispose, «il legittimo re dell’Isola Che-non-c’è.»